«Vedi Tuco, il mondo si divide in due categorie: quelli che hanno la pistola carica e quelli che scavano; tu scavi».
Con queste parole l’Indio Clint Eastwood chiudeva la lunga diatriba che negli anni 70 lo accompagnava a Eli Wallach nel film cult per gli amanti del genere “per qualche dollaro in più; e in “salvare il fuoco”, ultima fatica per i tipi di Bompiani di Guillermo Arriaga, torna l’eco di una visione dicotomica, che del Mondo e della Vita, nella sua scarna, crudele e quasi inaccettabile semplicità ci offre, per paradosso, l’unica sintesi possibile . Anche qui il “…paese è diviso in due: quelli che hanno paura e quelli che provano rabbia. Voi, borghesi, siete quelli che avete paura.”
Marina è una donna della buona società messicana, annoiata e facile preda delle tentazioni; sposata con tre figli vive in un bel quartiere residenziale dove frequenta i ristoranti e le persone giuste; coinvolta dai suoi amici Pedro e Bernardo in un progetto capace di spingerla fuori dal suo mondo e dalle sue certezze, si ritroverà a tentare di avvicinare i detenuti di un carcere di massima sicurezza all’arte; e proprio in carcere incontrerà un nuovo alter ego eastwoodiano negli occhi azzurri dell’indio José Cuauhtémoc, innamorandosene.
Nel libro, che forse qua e là indulge troppo nel voler piacere e impressionare il lettore, Arriaga ci racconta un’umanità corrotta fino al midollo, dove il confine tra bene e male, tra inferno e paradiso, si confonde nell’abisso di un’esistenza che solo la passione per gli elementi primordiali, soprattutto il sesso – in barba a tanta letteratura contemporanea completamente asessuata – può giustificare. Come diceva Morin e come avrebbe sottoscritto l’eroe western dei film di Sergio Leone chi sa spingersi oltre i limiti non può accettare di vivere poco per non morire molto.